La musica di Ameria Radio del 25 gennaio 2021 – Viaggio in Italia 2 puntata – Musiche di Berlioz e Elgar

A cura di Massimiliano Samsa

Viaggio in Italia… (seconda puntata)

Hector Berlioz (1803 – 1869) – Aroldo in Italia, op. 16

Sinfonia in 4 parti per viola concertante e orchestra

  1. Harold aux montagnes. Scènes de mélancolie, de bonheur et de joie
    • Adagio (sol maggiore). Allegro
  2. Marche de pèlerins chantant la prière du soir
    • Allegretto (mi maggiore)
  3. Sérénade d’un montagnard des Abruzzes à sa maîtresse
    • Allegro assai (do maggiore). Allegretto. Allegro assai. Allegretto
  4. Orgie de brigands. Souvenirs des scènes précédentes
    • Allegro frenetico (sol minore)

Prima esecuzione: Parigi, Salle du Conservatoire, 23 Novembre 1834

Dedica: à Monsieur Humbert Ferrand

Philharmonia Orchestra

Yehudi Menuhin, viola

Sir Colin Davis, direttore

Nei primi mesi del 1834, nel corso di un incontro con Berlioz, verso cui manifestò più volte stima e ammirazione, Paganini, l’affascinante virtuoso di violino universalmente idolatrato ai suoi tempi, chiese al musicista di scrivergli un pezzo per viola di particolare brillantezza solistica. Berlioz compose, ma senza finirla, una fantasia drammatica per orchestra, cori e viola solista, intitolandola Les derniers moments de Marie Stuart e la sottopose all’attenzione di Paganini. Costui la giudicò subito “poco solistica” e non la prese in considerazione per una eventuale esecuzione in pubblico. Berlioz non si preoccupò eccessivamente del giudizio del suo amico violinista e conquistato da una nuova idea poetica suggeritagli dalla lettura del “Child Harold’s Pilgrimage” di lord Byron in pochi mesi rielaborò il pezzo, dando vita alla sinfonia con viola solista Harold en Italie op. 16, finita di comporre il 22 giugno 1834 in una casetta a rue Saint-Denis, a Montmartre.

La prima esecuzione di quest’ultima composizione autobiografica di Berlioz ebbe luogo a Parigi il 23 novembre 1834 alla presenza di un pubblico quanto mai qualificato, tra cui spiccavano artisti e scrittori molto importatiti, come Eugéne Sue, Victor Hugo, Saint-Beuve, Lamennais, Heine, Alfred de Vigny, Alexandre Dumas e Liszt. Il direttore fu Narcisse Girard, mentre la parte solistica fu affidata al violista Urban.

La cronaca della serata, abbastanza lusinghiera per il musicista, fu raccontata dallo stesso Berlioz nei suoi “Mémoirs” con queste parole: «II primo brano non ebbe molti applausi per colpa di Girard, che non riuscì a trascinare abbastanza l’orchestra nella coda. La marcia dei pellegrini scatenò le richieste del bis… Nella seconda esecuzione, nel momento in cui, dopo una breve interruzione, si sentono di nuovo le campane del convento, l’arpista contò male le sue pause e si perdette. Allora Girard pensò bene di gridare all’orchestra: all’ultimo accordo, e tutti si ritrovarono sull’accordo, finale, saltando le cinquanta e più battute che lo precedono. Il resto filò via in maniera soddisfacente e tra l’interesse generale». Il lavoro rispecchia le regole e le caratteristiche della cosiddetta musica a programma, in cui attorno all’idea poetica centrale (l’idèe fixe come nucleo estetico fondamentale) ruotano diversi motivi che si richiamano direttamente e indirettamente al soggetto principale. Naturalmente non c’è alcun rapporto di interdipendenza tra il poema di Byron, dove si racconta di un viaggio immaginario del poeta inglese attraverso il Portogallo, la Spagna, la Grecia, la Svizzera e l’Italia, e la musica di Berlioz, che nel giovane Aroldo identifica se stesso per riandare con la memoria ad alcuni episodi del suo soggiorno a Roma e tra i monti dell’Abruzzo (1830-’31). Inoltre Berlioz sceglie la viola come strumento solista, perché ritiene che essa possa esprimere con la sua voce dal timbro scuro e dall’accento malinconico i tormenti romantici del suo animo.

La composizione si articola in quattro episodi che formano come quattro pannelli dello stesso affresco, dipinto dal musicista con quella ricchezza e varietà di orchestrazione che gli è congeniale e suscita alle volte ancora oggi un sentimento di stupefatta attenzione. La prima parte, Harold aux montagnes, si apre con un Adagio introdotto da un preludio orchestrale improntato a tristezza e ad un senso di solitudine. La viola espone il tema fondamentale, pieno di cantabilità dolente e allusivo alla personalità di Aroldo-Berlioz; viene quindi l’Allegro che modifica l’atmosfera della scena, resa più vivace e brillante dal ritmo spigliato dell’orchestra, in un fosforescente contrappunto con lo strumento solista. Il secondo brano, Marche des pélerins chantants la priére du soir, è un Allegretto di pungente effetto musicale: il suono della campana di un convento annunciante l’Angelus evoca lontani cori di penitenti che muovono in processione verso la chiesa del villaggio. La voce della viola si lega intimamente alle armonie degli altri strumenti, a cominciare da quelle degli archi e dei corni. Un Allegro è il terzo movimento, Sérénade d’un montagnard des Abruzzes a sa maitresse, in cui Berlioz dispiega tutta la sua abilità descrittiva e di pittore paesaggista. Le figurazioni ritmiche del flauto, dell’oboe e delle viole intessono giochi di gustose sonorità con i fiati e il corno inglese: sono zampogne e pifferi di una antica scena popolaresca. La voce solista commenta la serenata in chiave liricamente nostalgica. Il finale Orgie des brigands è un Allegro frenetico, dove la fantasia berlioziana si scatena per costruire una di quelle cattedrali di suoni che piacevano tanto all’autore de La Damnation de Faust. In esso si avverte l’eco amplificata delle tre scene precedenti, come una grandiosa conclusione orchestrale svolta sui temi già utilizzati e sviluppati nel corso della pittoresca composizione. La pagina, al di là di qualsiasi riferimento realistico, ha un prepotente piglio sinfonico che dilaga impetuoso e violento; il protagonista sembra silenziosamente sopraffatto e riesce ad emergere con il capo in mezzo a tanta orgia di suoni soltanto per poco prima della stretta conclusiva. Evidentemente la passione per l’orchestra prende la mano a Berlioz, che si dimentica di affidare una parte di adeguato rilievo alla timida viola, come se Aroldo si limitasse a guardare la scena a distanza, tutto preso dai suoi sogni e dalle sue fantasticherie.

Testo tratto da: https://www.flaminioonline.it/Guide/Berlioz/Berlioz-Aroldo.html

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Edward Elgar (1857 – 1934) – In the South (Alassio), op. 50

Ouverture da concerto per orchestra


Vivace. Grandioso. Meno mosso, molto tranquillo

Prima esecuzione: Londra, Covent Garden, 16 marzo 1904
Dedica: Leo F. Schuster

London Philharmonic Orchestra

Sir Georg Solti, direttore

«L’Inghilterra riprende ora il suo posto antico, dopo un intervallo di due secoli, come nazione musicalmente produttiva. Sir Edward Elgar, il cui genio […] ha raggiunto una tecnica rifinita con lo studio e col trarre buone occasioni dalla pratica, […] crea musica che è tanto tipicamente inglese quanto è tipica una casa di campagna con scuderia nello Shropshire. Non pongo qui la questione se sia buona musica […]. Per me il punto è che, se si ami o no, essa è l’espressione caratteristica di un certo tipo di educazione inglese, ed eccellente educazione quanto a questo. Prima che arrivasse Elgar, in Inghilterra non esisteva nulla del genere sul piano sinfonico. Bisognava andare indietro fino a Purcell».

L’alto elogio, arguto come al solito, è di G. B. Shaw convinto ammiratore di Elgar. In che senso la Englishness è un dato così esplicito nella musica di Elgar? Se una nazione ha caratteri propri e distintivi come li ha (o li ha avuti) l’inglese, diciamo l’alto stile sociale, la cura delle forme accanto al senso pratico, l’attenzione schietta ma ben controllata per le altre culture, l’umorismo, – se è così, nessun musicista inglese tra l’Otto e il Novecento esprime la Englishness come Elgar. È questo un riconoscimento che, diventato un luogo comune, non gli ha giovato. Ma Elgar ne era orgoglioso, a buon diritto: perché, per fare ora noi qualche esempio su aspetti che ci sono utili, lui venerava il sinfonismo tedesco, ne conosceva e praticava i procedimenti costruttivi, teneva alta la tradizione della musica corale e da oratorio e, infine, molto amava l’arte italiana e i soggiorni, anche prolungati, in Italia. Tutto da autentico gentiluomo inglese colto, sicuro del proprio patrimonio intellettuale e discreto. Perfino in qualche segnale minimo. Ho detto che la sua è musica “inglese”, sì, ma che appartiene all’area del tardo romanticismo tedesco: tuttavia la particolarità di stile si riconosce anche da un dato minimo, da un’indicazione di espressione diventata famosa, nobilmente, che Elgar distribuisce nelle sue partiture, non per sollecitare l’enfasi ma, al contrario, per chiedere cura e ritegno. Ancora oggi la musica di Elgar è chiamata, con affettuoso rispetto, “the nobilmente music”.

Di ciò sono prova i suoi lavori celebri, l’oratorio The Dream of Gerontius, le Variations on an Original Theme for Orchestra (le cosiddette Enigma Variations), capolavoro di sapienza costruttiva, di ritrattistica musicale, di severità e di umorismo, le irresistibili cinque marce intitolate Pomp and Circumstance (da sempre familiari a tutti, come una specie di sua “‘tessera inglese di riconoscimento”), e infine il poema sinfonico In the South, composto in Italia, ad Alassio, nell’inverno 1903-04, che è un festoso omaggio all’Italia, più coerente e maturo di Aus Italien di Richard Strauss (musicista, sì, di statura incomparabilmente maggiore, come ben sapeva anche Elgar, suo ammiratore ed amico). Un festoso omaggio all’Italia, al calore della vita e della luce nel sud, al chiasso, e anche al grande passato storico dell’Italia. Paesaggio e storia sono, infatti, il contenuto ideale del poema, come si capisce dalle due citazioni da Tennyson («…un paese che fu il più forte nella sua antica potenza, ed è il più adorabile… ») e da Byron («… Gli uomini di Roma! Tu sei il giardino del mondo …»), scritte da Elgar in capo alla partitura.

In the South si inizia con uno scattante slancio “straussiano” di tutta l’orchestra (mi bemolle maggiore), con uno dei temi entusiasti che corrono nella prima parte del poema. Questa agitata emozione si espande poi in un secondo motivo, nobilmente, di robusto pathos (oboi, arpa, archi). Quindi, nella profusione dell’invenzione tematica, nella variabilità dei colori sonori, ora smaglianti ora densi, e, detto in termini musicali, nella prontezza delle modulazioni anche a toni distanti (da do minore, a fa maggiore) percepiamo lo stupore dello sguardo («… le palme, gli aranci in fiore, gli olivi, il granturco, le vigne …» nei versi di Tennyson), l’intensità delle esperienze psicologiche, il fervore dei pensieri, l’abbandono tranquillo, il raccoglimento.

E nel raccoglimento sorge il ricordo della grandezza imperiale di Roma. Elgar apparteneva all’alta cultura inglese per la quale la bellezza del paesaggio italiano era tutt’uno con l’idea dell’antichità classica. Sull’unione ideale di presente e di passato è costruita la maestosa celebrazione degli edifici e delle rovine antiche. Non è musica da Feste romane, sebbene neanche qui sia assente una traccia di buona retorica descrittiva.

La vigorosa elaborazione formale dell’episodio “classico” si dissolve nella quiete serena del presente. Una romantica melodia notturna, affidata alla viola (omaggio all’Harold en Italie di Berlioz), ripresa dai corni e poi ancora dalla viola, accompagna la meditazione fino al momento in cui la vitalità diurna, la luce del paesaggio, i suoni tornano a dominare. Lo sviluppo di tutti i temi della prima parte, Molto Allegro, conclude il poema.

Franco Serpa

Testo tratto da: https://www.flaminioonline.it/Guide/Elgar/Elgar-South50.html