Il pianoforte di Ludwig van Beethoven

La tastiera ha influenzato e ispirato l’attività musicale di Ludwig van Beethoven. Ma di quali tastiere si parla?

Nel 1782 agli inizi della sua carriera musicale e pochi mesi prima di diventare continuista nell’orchestra del Teatro di Bonn, Beethoven appose al frontespizio delle variazioni WoO 63 l’indicazione “Pour le Clavecin”. Indicazioni che ritroveremo spesso, nella doppia nomenclatura “Pour le clavecin ou Piano – Forte” su buona parte della sua produzione giovanile.


Stampa dell’edizione Artaria (Vienna 1796) dell’op. 2 ‘Pour le Clavecin ou Piano-Forte’

Ecco un breve saggio delle indicazioni di Beethoven relative alla produzione settecentesca:

  • 1782 – Variazioni WoO 63 “Pour le Clavecin
  • 1783 – “Drei Sonaten fürs Klavier” WoO 47 e “Concert pour le Clavecin ou Fortepiano” WoO 4
  • 1795 – Trii op. 1 “Pour le Piano-Forte, Violin, et Violoncelle” (qui compare per la prima volta il termine Pianoforte)
  • 1797 – Sonata op. 6 “Pour le Clavecin ou Forte-Piano”.

Oltre a Clavecin, abbiamo Klavier, Fortepiano e Pianoforte. Almeno quattro nomi diversi.

Ora Klavier è un termine generico per “tastiera” e nel secondo ‘700 poteva indicare tanto un clavicembalo che un fortepiano che un clavicordo.

Solo successivamente e con Beethoven il termine Hammerklavier (tastiera a martelli), più specifico e vicino agli abituali Piano-Forte e Forte Piano.

L’esigenza di uno strumento a tastiera che fondesse le possibilità sonore del clavicembalo con le sfumature del clavicordo si concretizzò in un nuovo strumento: il pianoforte.

In quegli anni i pianoforti stavano evolvendosi con estrema rapidità; i loro costruttori non solo producevano un numero sempre maggiore di strumenti, ma sperimentavano anche costantemente con questi, creando, anche in una stessa città, esemplari completamente diversi tra loro sia per costruzione che per possibilità espressive.

Il pianoforte si imponeva proprio in quegli anni all’attenzione dei musicisti seppur attraverso un’evoluzione sofferta e macchinosa che lo avrebbe affrancato dal clavicembalo per farlo divenire quella palestra di suono incomparabile capace di riprodurre in sé tutta la dinamicità e i colori di un’orchestra. Se questo si è verificato nel tempo, una gran parte di merito è proprio da ascrivere al genio visionario di Beethoven che per tutta la vita pungolò i costruttori con richieste precise e pressanti, provando e riprovando esemplari diversi – spesso ricevuti in dono da ditte di mezza Europa – e contribuendo di fatto a mutarne caratteristiche ed estensione. Il compositore Friedrich Reichardt ricorda in un resoconto di viaggio che alcuni miglioramenti tecnici apportati al pianoforte dal costruttore Andreas Steicher vennero portati a termine su “parere e richiesta di Beethoven” così da ottenere “più resistenza ed elasticità” abbandonando le “meccaniche delicate e cedevoli dei vecchi strumenti, superando quell’“effetto di arpa” che Beethoven stesso lamentava esplicitamente scrivendo al medesimo costruttore qualche anno prima.

Al compositore occorreva uno strumento in grado di produrre contrasti forti, meccaniche che alimentassero non solo brillantezza e virtuosismo ma traducessero anzitutto quel senso di costruttività materiale e corposa che è un suo tratto tipico.

Sono trentadue le sonate composte da Beethoven per il pianoforte e i suoi antenati in un arco di tempo che va dal 1795 al 1822; attraversano dunque tutte e tre le fasi della sua creatività e sono spesso indicative di soluzioni che caratterizzeranno analogamente anche le sinfonie e i concerti per strumento solista e orchestra.

A differenza degli altri ambiti compositivi si può trovare, però, in queste sonate, un preciso spartiacque che cade nel 1803 e separa le prime venti opere dalle successive dodici e corrisponde perfettamente all’anno in cui Steicher costruì pianoforti di sei ottave che diverranno poi sei e mezzo al posto delle tradizionali cinque, allargando così la gamma di possibilità così come con le nuove meccaniche la potenza sonora: è precisamente da quell’anno che anche la scrittura beethoveniana si amplia andando a sfruttare maggiormente i registri più acuti e gravi dello strumento.
La prima sonata che inaugura questa nuova stagione è la numero 21 op. 53, universalmente nota come sonata Waldstein, dal nome del primo protettore di Beethoven, colui che si racconta benedicesse a parole il giovane compositore dicendo di affidargli “lo spirito di Mozart attraverso le mani di Haydn”, fondando così di fatto la grande triade del classicismo viennese.
E’ proprio con la Waldstein che il linguaggio dell’artista si concentra e alimenta quelle tensioni dinamiche proprie del Beethoven sinfonico sfruttando tutti gli effetti delle nuove meccaniche pianistiche.


Lo strumento a sei ottave n. 7362 che Thomas Broadwood inviò a Beethoven alla fine del 1810

Scrive Sandra P. Rosenblum:

“In realtà la parola fortepiano non indicava qualcosa di ben definito, in quanto gli strumenti non solo differivano da luogo a luogo, ma andavano rapidamente modificandosi un po’ dovunque. Ciò nonostante, tutti i fortepiani del periodo classico mostrano un certo numero di caratteristiche che li differenziano dai moderni pianoforti”

Vale a dire:

  1. Il doppio scappamento (meccanismo brevettato dal costruttore francese Érard nel 1821, che permette di ribattere lo stesso tasto a brevissima distanza di tempo)

Meccanica a doppio scappamento di Érard, 1822:
1) martello; 2) leva intermedia; 3) Scappamento; 4) tasto; 5) paramartello;
6) smorzatore; 7) molla di ripetizione.

2. Il telaio interamente metallico (invenzione dell’americano Alpheus Babcock risalente al 1825, avrebbe consentito una maggiore tensione delle corde e, quindi, un maggior volume di suono)

3. La copertura dei martelli in feltro (intuizione di Henry Pape attuata a Parigi nel 1826, che si sostituì ai tradizionali rivestimenti in pelle, con ovvie implicazioni timbriche)

Per non parlare poi della diversa corsa del tasto, dei particolari pedali, le corde dei bassi più spesse, la maggior estensione della tastiera e così via.

Possiamo dire che il fortepiano prima e il pianoforte poi furono gli strumenti che accompagnarono tutta la carriera di Beethoven. D’altronde questo strumento ormai si imponeva proprio in quegli anni all’attenzione dei musicisti attraverso un’evoluzione che lo avrebbe affrancato dal clavicembalo.

A Beethoven occorreva uno strumento in grado di produrre contrasti forti, meccaniche che alimentassero brillantezza e virtuosismo.

Nel 1817 la Broadwood inviò a Vienna come regalo un pianoforte a coda a Beethoven: dato che i costruttori viennesi erano i rivali principali del mercato internazionale, collocare questo piano inglese nella casa del più prestigioso compositore viennese vivente significava spingere il prodotto della Broadwood proprio nel cuore della concorrenza.

Gli studiosi si sono anche domandati quanto questo strumento, diverso da quelli viennesi a cui era abituato, abbia influenzato Beethoven nelle composizioni successive.
A Vienna i costruttori facevano a gara nel fornire il loro pianoforte a Beethoven, ma lui preferiva il modello di Anton Walter. Questi, però, voleva essere pagato e Beethoven, come risulta da una lettera del 1802, si dichiarò disposto a pagare. Un anno dopo Érard regalò a Beethoven un pianoforte a coda a meccanica viennese, con una volumetria più importante rispetto agli strumenti viennesi. Nell’ottobre 1803, un nuovo pianoforte entrò nella vita di Beethoven. Realizzato dai fratelli Érard a Parigi, portava il numero di serie 133, a indicare che era il 133° pianoforte a coda di questo tipo che Érard Frères aveva costruito dal 1797.


Pianoforte donato a Beethoven nel 1803 da Sebastien Érard

Il compositore ne era “così incantato”, riferì un visitatore, “che considera tutti i pianoforti fatto qui come spazzatura al confronto. ” Ma mentre il suono del pianoforte francese può essere stato superbo, il suo tocco era significativamente più pesante di quello a cui era abituato Beethoven, quindi ha riposto la sua fiducia nelle capacità di un tecnico di pianoforte locale, che ha apportato una serie di aggiustamenti tecnici. Nel processo, tuttavia, le proprietà uniche dello strumento furono gravemente compromesse e nel 1809 Beethoven non ebbe altra scelta che dichiarare il suo pianoforte francese “ora del tutto inutile”. 

Nel 1818 Beethoven ringraziò Thomas Broadwood per avergli mandato un pianoforte a coda con una dimensione ulteriormente ingrandita. L’ultimo piano a coda di Beethoven con una meccanica viennese era di Conrad Graf: questi, dopo aver riparato per almeno due volte il piano Broadwood, gli prestò a vita un suo strumento, oggi esposto nella casa di Beethoven a Bonn.


Pianoforte viennese di Conrad Graf esposto nella casa di Beethoven
 

“Ascoltare Beethoven sugli strumenti di oggi è sempre sentire una sorta di trascrizione. Coloro che nutrono ancora delle illusioni a questo riguardo le perderanno andando a visitare un museo di strumenti antichi.”

                                                                                                                                                                 (Alfred Brendel)