29 NOVEMBRE 1924 MUORE PUCCINI
Questo, lo sappiamo tutti, è l’anno pucciniano. In Italia e all’Estero, il grande maestro di Lucca è stato ricordato con opere, concerti e quant’altro. È andata molto Turandot, la quale per la verità, oltre che non finita, è l’opera meno “pucciniana” di Puccini. Ma il suo Nessun dorma l’ha resa famosissima e tanto basta.
Noi qui vogliano ricordare il maestro riprendendo un pensiero di un grande esperto di musica, e non solo, Francesco Maria Colombo, il quale in un suo scritto di qualche tempo fa riproponeva un disco. Che io ho avuto la fortuna di ascoltare e grazie a quel post riascoltare dopo lungo oblio, riscoprendo e forse per la prima volta capendo a pieno grazie a lui, la musica in esso incisa.
Si tratta proprio di Turandot, data il 1981, è della Deutsche Grammophon, ed è l’edizione emozionante e innovativa di Herbert von Karajan, con Placido Domingo e Katia Ricciarelli. Quell’edizione di Turandot non è soltanto un esempio di virtuosismo smagliante, ma soprattutto la proposta di allontanare quell’opera dall’idea tradizionale di melodramma per immergerla invece nella pura bellezza: bellezza di suono, respiro, colori strumentali, fraseggio.
“È come non guardare un quadro di Klimt, ma essere dentro un quadro di Klimt, respirare polline d’oro, sciogliersi in liquide curve…”. Questa visione simbolistica e decadentistica non esaurisce le possibilità di interpretazione del testo, ma indica una via, anzi La via perché Turandot sia non un melodramma tradizionale, ma la sua negazione, non un’opera, ma il sogno di un’opera.
In altre parole, se la visione di Karajan è legata ad un codice estetico, appunto il simbolismo e il decadentismo, proprio questa modernità è un possibile futuro per quest’opera a dispetto dei quarant’anni trascorsi dalla sua registrazione.
Questo disco fu all’epoca molto citato sia per la direzione che per la bravura di Placido Domingo, uomo dalle infinite possibilità vocali, e sia per crocifiggere Katia Ricciarelli che più volte è stata fatta a pezzi per questo disco, ma che invece per il suo timbro incorporeo, veramente è il perfetto compimento dell’idea estetica di Karajan: “un raggio di disincarnata luminescenza che l’orchestra protegge in un guscio di madreperla”, proteggendo così la stessa principessa.
Turandot in un crescendo mirabile esige la soluzione di tre enigmi: le soluzioni sono la speranza, il sangue e, come ultimo, il suo stesso nome. È come se Turandot avesse posto al principe l’enigma di sé stessa, quella ricerca che lei non può compiere perché vittima di risentimenti ormai pietrificati dalle difese che si è imposta. Katia Ricciarelli ne interpreta in modo sublime quel disagio profondo che la sua crudeltà artefatta non riesce più a contenere.
In chiusura ricordiamo che Karajan, sul quale oggi è caduta un’inspiegabile quanto deprecabile damnatio memoriae, non ha mai diretto Turandot in teatro. Per farlo avrebbe voluto come regista Ingmar Bergman, ci ricorda sempre Colombo, ma non se ne fece niente anche per le condizioni fisiche di Karajan.
Senza dimenticare le arie delicate e struggenti di Mimì, la sfrontata disinvoltura di Musetta, le passioni sanguigne di Tosca, il tragico destino di Manon, la pittoresca figura della Fanciulla del West, la sublime genialità del coro muto di Butterfly, e tutto il complesso e indimenticabile – per qualità melodica, intensità drammatica e preziosismo sonoro – patrimonio musicale di Puccini, riascoltare questa incisione di Turandot credo sia l’omaggio più significativo al Maestro, a una bacchetta che ancora oggi ha molto da insegnare e da dare alla difficile arte della direzione, e ai due altrettanto indimenticabili maestri di bel canto, Placido e Katia.