I Notturni di Ameria Radio del 13 gennaio 2021 musiche di Arnold Schönberg

A cura di Massimiliano Samsa

Arnold Schönberg (1874 – 1951) Gurre-Lieder

per soli, coro e orchestra
Testo: Jens Peter Jacobsen
Prima rappresentazione: Vienna, Großer Musikvereins-Saal, 23 febbraio 1913

Parte I:

  1. Preludio orchestrale
  2. Nun dämpft die Dämm’rung (Waldemar)
  3. O, wenn des Mondes Strahlen (Tove)
  4. Roß! Mein Roß! Was schleigst du so träg! (Waldemar)
  5. Sterne jubeln, das Meer, es leuchtet (Tove)
  6. So tanzen die Engel vor Gottes Thron nicht (Waldemar)
  7. Nun sag ich dir zum ersten Mal (Tove)
  8. Es ist Mitternachtszeit (Waldemar)
  9. Du sendest mir einen Liebesblick (Tove)
  10. Du wunderliche Tove! (Waldemar)
  11. Interludio orchestrale
  12. Tauben von Gurre! (Stimme des Waldtaube)

Parte II:

  1. Herrgott, weißt du, was du tatest (Waldemar)

Waldemar – Thomas Moser

Tove – Jane Eaglen

Waldtaube – Marjana Lipovsek

Klaus Narr – Kurt Azesberger

Bauer – Franz Grundheber

Sprecher – Hans Hotter

Orchestra – Gustav Mahler Jugendorchester

Choir –  Arnold Schönberg Chor; Südfunk Chor Stuttgart; Slowakischer Philharmonischer Chor

Claudio Abbado, direttore

L’ascolto dei Gurre-Lieder proseguirà nella puntata di domani con la terza ed ultima parte.

I Gurre-Lieder di Schönberg venivano considerati da Claude Rostand come una delle opere più importanti della storia della musica. Altri critici sottolineano il fatto che si tratta di un’opera giovanile del compositore in cui «l’onnipresenza di Wagner è schiacciante» (Mila). Si tratta di giudizi apparentemente contrastanti, ma che in realtà non si escludono: vanno però interpretati.

Per poter valutare il posto, invero singolare, che i Gurre-Lieder occupano nell’ambito della creatività schönberghiana e in quello generale della musica europea tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nostro secolo, bisogna rifarsi alle circostanze e ai tempi che caratterizzarono la nascita di quest’opera. Come riferisce Alexander von Zemlinsky, il mentore del giovane Schönberg e suo futuro cognato, l’impulso iniziale per la composizione dei Gurre-Lieder fu costituito da un concorso indetto per la fine del 1899 dal Tonkünstlerverein di Vienna per un ciclo di Lieder per canto e pianoforte. Schönberg, il quale aveva, allora, venticinque anni e si trovava in grandi ristrettezze economiche, intendeva partecipare al concorso. Scrive Zemlinsky: «… Schönberg scrisse alcuni Lieder su poesie di Jacobsen. Glieli suonai. I Lieder erano bellissimi e di un genere veramente nuovo, ma entrambi ne ricevemmo l’impressione che, proprio per questo, non avrebbero avuto nessuna prospettiva nel concorso per un premio. Ciononostante Schönberg compose l’intero ciclo di Jacobsen. Non però per una sola voce di canto: vi si aggiunsero grandi cori, un melologo, preludi e interludi ed il tutto fu scritto per un’orchestra gigantesca».

Lo stesso Schönberg, in una lettera a Berg riprodotta nel grande Führer (più di cento pagine di guida all’opera) che lo stesso Berg pubblicò nel 1913, in vista della trionfale prima esecuzione che i Gurre-Lieder conobbero il 23 febbraio di quell’anno nel Grosser Musikvereinssaal di Vienna, sotto la direzione di Franz Schreker.

In questa lettera Schönberg precisa tempi e vicissitudini della composizione: «Nel marzo 1900 terminai le parti I e II e parecchio della parte III. Seguì una lunga pausa colmata con la strumentazione di operette. Nel marzo 1901 (cioè all’inizio di quell’anno) fu finito il resto. Poscia iniziò la strumentazione (impedita nuovamente da altri lavori, giacché sono stato sempre ostacolato nel comporre). Ho continuato a Berlino verso la metà del 1902. Poi ci fu una grande interruzione per via della strumentazione di operette. Finalmente ho lavorato nel 1903 terminando la partitura fino all’incirca la pagina 118 (corrispondente alla parte 105 della riduzione per pianoforte). Dopodiché ho lasciato la partitura abbandonandola completamente. L’ho ripresa nel luglio 1910 (a Vienna). Ho strumentato tutto salvo il coro finale, terminando quest’ultimo a Zehlendorf (presso Berlino) nel 1911. L’intera composizione era già compiuta, credo, nell’aprile o nel maggio 1901. Solo il coro finale si trovava allo stato d’un abbozzo nel quale, comunque, le voci principali e l’intera forma erano già interamente presenti. Solo molto poche indicazioni strumentali erano annotate nella composizione originaria. Allora, non notavo cose del genere, giacché la sonorità si ricorda. Ma pure prescindendo da questo: si deve proprio vedere che la parte orchestrata nel 1910 e nel 1911, per quanto riguarda lo stile della strumentazione, è del tutto diversa dalla I e dalla II parte. Non avevo l’intenzione di nascondere questo. Al contrario, va da sé che a distanza di dieci anni strumento in modo diverso. Nel terminare la partitura ho rielaborato soltanto alcune, poche parti. Si tratta solo di gruppi di 8-20 battute; in particolare ad esempio nel pezzo: Klaus-Narr e nel coro conclusivo. Tutto il resto (anche qualcosa che avrei visto volentieri in modo diverso) è rimasto com’era allora. Non avrei centrato più lo stile e un conoscitore appena esercitato dovrebbe saper trovare senz’altro i 4-5 passi emendati. Queste correzioni mi hanno fatto più fatica che, a suo tempo, l’intera composizione».

La cosa è del tutto comprensibile se si pensa ai passi immensi, anzi ai salti vertiginosi che Schönberg aveva compiuto, tra il 1903 e il 1911, lungo l’itinerario stilistico che la sorte (ma egli parlava delle determinazioni di un «Supremo Comandante») aveva assegnato a lui e, insieme a lui, alla musica occidentale.

I Gurre-Lieder apparivano ai loro primi ascoltatori – ed oggi appaiono vieppiù a chi li recepisce con un orecchio passivo, non analitico – come un’opera immersa in un clima tardo-romantico, insieme post-wagneriano e post-brahmsiano. Ed è certamente quest’impressione che determinò il grande successo della prima esecuzione, di gran lunga il maggiore che Schönberg abbia mai potuto assaporare nella sua difficile carriera.

Ai Gurre-Lieder calza perfettamente quanto Schönberg, in suo abbozzo autobiografico, riferiva al Sestetto per archi Verklärte Nacht op. 4, scritto nel 1899, cioè nello stesso anno in cui aveva inizio la composizione che qui c’interessa: «… divenni brahmsiano incontrando Zemlinsky. Il suo amore abbracciava Brahms e Wagner e perciò divenni anch’io un loro seguace convinto. Nessuna meraviglia, dunque, se la musica che composi in quel periodo riflette l’influsso di quei due maestri, al favore per i quali si aggiunse quello per Liszt, Bruckner e forse pure Wolf. Questa è la ragione per cui […] la costruzione tematica vi è basata da un lato su di un “modello” e su di una “sequenza” sopra un’armonia circolare di tipo wagneriano, e dall’altro lato su di una tecnica di sviluppo della variazione brahmsiana. Pure a Brahms può essere accreditata la disparità delle misure […]. Ma il trattamento degli strumenti, il modo della composizione e gran parte delle sonorità sono strettamente wagneriani. Penso però che qualche elemento schönberghiano possa scorgersi nella lunghezza di alcune melodie, nella sonorità, nelle combinazioni contrappuntistiche e dei motivi, in certi movimenti armonici e semicontrappuntistici dei bassi nei confronti della melodia. Finalmente v’erano già alcuni passaggi di tonalità imprecisa che possono essere considerati premonitori del futuro».

La peculiarità più vistosa dei Gurre-Lieder risulta però dalle dimensioni degli organici sinfonico-vocali. Abbiamo già citato la constatazione di Zemlinsky che l’orchestra dei Gurre-Lieder era «gigantesca». In realtà i mezzi chiamati a raccolta per realizzare quest’opera superano quantitativamente ogni precedente ed ogni conseguente. La partitura richiede infatti: 5 cantanti solisti (2 tenori, 1 soprano, 1 mezzosoprano o contralto, 1 basso), 1 recitante; 4 complessi corali, di cui un doppio coro misto a otto parti e tre cori virili a 4 parti ognuno; 4 flauti piccoli, 4 flauti grandi, 3 oboi, 2 corni inglesi (eventualmente 5 oboi), 3 clarinetti in la oppure in si bemolle, 2 clarinetti in mi bemolle, 2 clarinetti bassi in si bemolle (eventualmente 7 clarinetti in la), 3 fagotti, 2 controfagotti; 10 corni (eventualmente 4 tube wagneriane), 6 trombe in fa, si bemolle e do, 1 tromba bassa in mi bemolle, 1 trombone contralto, 4 tromboni tenor-bassi, 1 trombone basso in mi bemolle, 1 trombone contrabbasso, 1 tuba contrabbasso; 6 timpani, grande cassa rullante, piatti, triangolo, campanelli, cassa piccola, grancassa, xilofono, raganelle, alcune grandi catene, tam-tam; 4 arpe, celesta; una massa di strumenti ad arco in «molteplici raddoppi»: i violini I devono essere divisibili in 10, così anche i violini II, mentre viole e violoncelli devono permettere divisioni in 8 parti differenti. Non esisteva e non esiste in commercio carta da musica stampata sufficientemente grande per permettere la notazione di figure sonore realizzate da tante voci e da tanti strumenti. Schönberg fu obbligato dunque di farsi approntare dei fogli di carta da musica con ben 48 pentagrammi, di un’altezza che supera il mezzo metro (le dimensioni esatte di questi fogli sono 36×57,5 cm.).

Con il loro gigantismo orchestrale i Gurre-Lieder segnano il culmine di una tendenza che, attraverso Wagner e Berlioz, risale fino al Beethoven della Nona Sinfonia. Schönberg aveva subito indubbiamente anche l’influsso di Mahler, ma non è da escludersi che l’esempio dei Gurre-Lieder abbia poi contribuito a stimolare quest’ultimo nell’impresa della sua Ottava, cosiddetta «Sinfonia dei mille». Schönberg e Mahler erano amici e non è improbabile che Schönberg abbia mostrato a Mahler la ciclopica partitura alla quale stava lavorando, così come in precedenza ne aveva mostrato gli inizi a Richard Strauss il quale ne rimase molto impressionato, tant’è vero che, oltre a fargli assegnare il Liszt-Stipendium per il 1902 (un premio in denaro della Fondazione Liszt), gli procurò un posto di insegnante presso il Conservatorio Stern di Berlino. In modo certamente indipendente da Schönberg, Stravinskij concepì la grande partitura orchestrale del Sacre du printemps. Fu però l’esempio del Pierrot lunaire di Schönberg (che Stravinskij ebbe modo di ascoltare a Berlino nel 1912, prima cioè che i Gurre-Lieder avessero conosciuto la loro prima esecuzione) ad indurre l’autore del Sacre a troncare per sempre la tendenza di ogni gigantismo orchestrale. Per conto suo, Schönberg aveva già reagito contro il sovradimensionamento orchestrale, da lui stesso spinto oltre ogni precedente limite, iniziando fin dal 1906 il processo di un ridimensionamento cameristico dello stile sinfonico con la sua prima Kammersymphonie op. 19 per 15 strumenti. La svolta rivoluzionaria preannunciata da quel lavoro, non si limitò peraltro alle dimensioni estrinseche della compagine sonora, ma investì la musica in ogni sua più riposta piega, in ogni suo parametro. Nel secondo Quartetto d’archi op. 10 del 1908, pur designandolo ancora come «in fa diesis minore», Schönberg arrivò a sospendere per lunghi tratti ogni tradizionale riferimento tonale; nei Quindici canti da Das Buch der hängenden Gärten di Stefan George op. 15 (dello stesso anno 1908), uscì definitivamente dai limiti del tradizionale sistema armonico-tonale; nei Sei piccoli pezzi op. 19 per pianoforte spezzò, nel 1911, ogni istituzionalizzata matrice formale e ridusse la musica a proporzioni di aforistica laconicità. Se Stravinskij potè sentire i due anni trascorsi tra le nascite dell’Uccello di fuoco e della Sagra della primavera come se pesassero per venti, Schönberg avrebbe dovuto sentirsi, nel momento in cui riprendeva la partitura dei Gurre-Lieder, a distanze stellari dal mondo in cui era stato concepito e progettato questo grandioso edificio sonoro. Ciononostante, ebbe il coraggio di tornare sui suoi passi per terminare, anche se con la ricordata fatica, l’opera incompiuta. Si trattò di un gesto che getta una luce significativa sull’ulteriore corso della sua attività creatrice. Parlando della Kammersymphonie op. 9, in uno scritto intitolato On revient toujours (datato 1948) Schönberg confessa: «…io dissi ai miei amici: “ora ho stabilito il mio stile. Ora so come devo comporre”. Ma la mia successiva opera mostrò una grande deviazione da questo stile; quello fu il primo passo verso il mio stile presente. Il mio destino mi ha costretto in questa direzione – non mi era dato di continuare nella maniera di Notte trasfigurata o dei Gurre-Lieder e persino di Pelléas e Mélisande. Il Supremo Comandante mi aveva ordinato di seguire una strada più dura. Ma la nostalgia d’un ritorno allo stile più antico rimase sempre vigorosa in me; e di quando in quando dovevo soddisfare quest’urgenza. Questa è la ragione per la quale io scrivo ogni tanto della musica tonale. Differenze stilistiche di tal genere non hanno speciale importanza per me. Non so quali delle mie composizioni siano migliori; le amo tutte, perché tutte mi piacquero quando le scrissi».

Con simili affermazioni e col suo effettivo comportamento nel campo del concreto lavoro compositivo, Schönberg diede una grande, anche se purtroppo non abbastanza seguita, lezione di tolleranza e di affrancamento da ogni tabù stilistico, sia a tanti suoi seguaci che non volevano ascoltare i suoi ammonimenti contro ogni eccessiva «ortodossia», sia in genere, a tutti coloro che, volendosi avanguardisti radicali, sono sempre tentati di esercitare veri e propri terrorismi culturali contro tutto ciò che differisce da uno stile considerato l’unico «attuale» in un determinato momento storico. Non per nulla Schönberg rifiutava di considerarsi un «compositore dodecafonico», ma voleva essere considerato per quello che egli si sentiva di essere realmente: un compositore che non si conforma a dei precetti, vecchi o nuovi che fossero, ma cerca solo delle verità.

Se i Gurre-Lieder si collocano virtualmente al polo opposto degli aforismi non tonali di Schönberg, non vi mancano tuttavia, come risulta già dalle citate frasi del compositore, elementi che preannunciano i successivi aspetti rivoluzionari della sua arte. Tra questi l’uso dello Sprechgesang, cioè del «canto-parlato», una forma intermedia tra recitazione prosastica e intonazione cantata. Lo Sprechgesang caratterizzerà opere come il Pierrot lunaire e Moses und Aaron. Esso si trova prefigurato nel melologo Des Sommerwindes wilde Jagd (La caccia selvaggia del vento d’estate) che precede la conclusione dei Gurre-Lieder. In una lettera scritta quasi mezzo secolo più tardi, Schönberg avverte però: «La notazione delle altezze sonore non va presa qui in modo così rigoroso come nei melologhi del Pierrot. In nessun caso ne deve nascere una melodia parlata cantabile come succede in quest’ultimo. Bisogna osservare sempre il ritmo e l’intensità dei suoni (in modo corrispondente all’accompagnamento). In taluni passi, che appaiono quasi melodici, si potrebbe parlare in modo un poco (!!) più musicale. Le altezze dei suoni sono da considerarsi come “differenze di registro”; ciò significa: il passo rispettivo (!!! non la singola nota) deve essere parlato in maniera più acuta o più grave. Non però proporzioni di intervalli!».

Anche la complessiva articolazione formale dei Gurre-Lieder presenta aspetti del tutto singolari. Come s’è già detto, l’opera nacque come un ciclo di liriche. I testi sono forniti dalle serie di poesie Gurresange del poeta danese Jens Peter Jacobsen (1847-1885), tradotti in tedesco da Robert Franz Arnold (pseudonimo del filologo e filosofo viennese Levisohn, vissuto tra il 1872 e il 1938). Queste poesie presentano una continuità narrativa riferendosi alla trama di una leggenda diffusa nelle tradizioni popolari della Danimarca, della Svezia, dell’Islanda e delle Isole. Faröer. Tali tradizioni si basano su di una vicenda storica accaduta durante il regno di Valdemar il Grande (1157-1182) e successivamente attribuita all’epoca di Valdemar IV Atterdag (1340-1375), sviluppata in termini leggendari ed ambientata nei dintorni del sito di Gurre presso il lago Esrom, nel Seeland settenrionale. Secondo la leggenda il re ama di nascosto Tove Lille (la piccola Tove: nome che significa anche colomba). Presentimenti funebri aleggiano sui loro incontri amorosi nel castello di Gurre, in mezzo all’incantata natura nordica. Dopo una «notte trasfigurata» di ebbrezza erotica, una colomba silvestre (Waldtaube) si alza in volo per annunciare a tutte le altre colombe della foresta di Gurre che Tove è morta, uccisa per ordine della gelosa regina Helvig. Il re, disperato, accompagna la salma di Tove alla tomba. Impreca contro l’ingiustizia divina e chiama a raccolta i suoi guerrieri, vivi e defunti, per precipitarsi con loro in una selvaggia corsa verso l’abisso della morte. Al termine della spettrale Caccia del vento d’estate, di questa variante maschile del Liebestod, della «morte d’amore» arciromantica, sorge il sole, quale simbolo e promessa di riscatto e risurrezione. Schönberg ha raggruppato venti liriche in tre parti, precedute da preludi e collegate da intermezzi orchestrali.

La prima parte inizia con un’ampia introduzione sinfonica che si svolge in una soffusa atmosfera crepuscolare e prepara tematicamente il primo canto di Waldemar: «Ora il crepuscolo smorza ogni suono / Di mare e di terra, / Le nubi volanti s’adagiano / Voluttuose sull’orizzonte». Segue il primo canto di Tove, tutto intriso di luce lunare: «Oh, quando i raggi della luna scivolano teneramente / e tutt’intorno si espandono pace e tranquillità». Un breve postludio e un passo di transizione orchestrale portano al terzo Lied, affidato nuovamente a Waldemar. Il brano ha la forma d’un Lied tripartito. Un primo episodio, Molto vivace, si riferisce all’impazienza del re che sprona il suo cavallo a galoppare sempre più velocemente verso il castello di Gurre dove l’attende Tove. Una parte centrale, in movimento Molto più lento, ritrae «le ombre del bosco che si estendono / Lontano su prati e stagni». La ripresa della parte iniziale (Tempo primo) culmina coll’estatico grido: «Volmer hat Tove gesehen» («Volmer ha visto Tove»). Senza alcuna soluzione di continuità, un interludio orchestrale porta all’estatico canto di Tove (IV Lied): «Sterne jubeln, das Meer, es leuchtet, / Presst an die Küste sein pochendes Herz» («Stelle giubilano, il mare splende, / Stringe alla sponda il suo cuore battente). Vi vengono sviluppati gli stessi temi del precedente canto di Waldemar, in varianti contrastanti, ma giuocate tutte su traslucidi, aerei registri sonori. «Come se venisse da un altro mondo» (E. Wallesz) risuona, allora il canto di Waldemar (V): «So tanzen die / Engel vor Gottes Thron nicht, / Wie die Welt tanzt vor mir» («Così nemmeno gli angeli / ballano davanti al trono di Dio, / Come il mondo mi balla davanti»). Questo Lied ha la semplicità popolaresca che troverà tanti ulteriori esempi nei Wunderhorn-Lieder, nei «Canti del corno magico del fanciullo» nella Terza, Quarta e Ottava Sinfonia di Mahler. (Mahler amava tanto Schönberg, da preoccuparsi ancora sul proprio letto di morte della sorte difficile che attendeva il più giovane amico). Al canto della felicità quasi paradisiaca del re, segue immediatamente il canto appassionatamente sensuale di Tove: «Nun sag ich dir sum ersten Mal: / “König volmer, iche liebe dich!” Nun küß ich dich zum erstenmal, / Und schlinge den Arm um dich» («Ora te lo dico per la prima volta: “Re Volmer, ti amo! ” / Ora ti bacio per la prima volta, / E ti cingo col mio braccio»). Con le sue ampie volute ed i suoi grandi intervalli melodici (che Schönberg allargherà sempre di più nei suoi futuri lavori del periodo espressionista), questo motivo d’amore è destinato ad assumere la funzione di tema principale dell’intera opera. In molteplici varianti lo stesso tema ed i suoi derivati pervaderanno le parti principali e spesso anche quelle di accompagnamento nell’ulteriore decorso dei Gurre-Lieder. Nel susseguente canto di Waldemar (VII), «Es ist Mitternachtszeit / Und unselge Geschlechter / Stehn auf aus vergess’nen, eingesunk’nen Gräbern» («E tempo di mezzanotte / E gente funesta / Sorge da tombe obliate e sprofondate»), l’atmosfera espressiva si oscura. Vi si esprime la prima premonizione del fatale esito della vicenda. Risponde Tove (VIII) con una estasiata invocazione alla morte come romantico compimento supremo dell’amore: «Denn wir gehn zu Grab / Wie ein Lächeln, ersterbend / Im seeligen Kuß!» («Perché noi scendiamo nella tomba / Come un sorriso, morendo / nel bacio beato!»). L’ultimo brano di questo gruppo di canti d’amore è un Lied di Waldemar che porta la musica in una specie di Nirvana erotico, dove ogni desiderio sensuale si risolve e si dissolve in una perfetta, totale unione di due esseri: «Du wunderliche Tove! / So rei eh durch dich nun bin ich, / Daß nicht einmal mehr ein Wunsch mir eigen / … Denn mir ist’s, als schlüg in meiner Brust / Deines Herzens Schlag, / Und als höbe mein Atemzug, / Tove , deinen Busen / … Und meine Seele ist still» («Strana Tove! / Sono ora così arricchitoda te / Che non possiedo più nemmeno un solo desiderio / … Perché è come se nel mio petto / battessero i battiti del tuo cuore / E come se il mio respiro sollevasse il tuo seno / … E la mia anima è silente»). Un ritorno del tema d’amore di Tove dà l’avvio ad un ampio Interludio orchestrale che si configura come una specie di sviluppo di tutti i principali elementi tematici della prima parte. Attraverso un lungo crescendo, quest’Interludio sfocia nel drammatico Lied der Waldtaube (Canto della colomba silvestre) che, a sua volta, culmina in una frase di un’intensità quasi espressionistica: «Helwigs Falke war’s der grausam Gurres Taube zerriß» («Fu il falco di Helwig che lacerò crudelmente la colomba di Gurre». Con quest’annuncio di morte termina la prima parte.

La seconda parte consta praticamente di un solo brano: un dolente compianto di Waldemar, il quale si ribella a Dio: «Herrgott weisst du, was du tatest, / Als klein Tove mir verstarb?» («Dio, sai tu quel che facevi, / quando mi morì la piccola Tove?»). L’introduce un breve preludio orchestrale (che s’avvia da, cupi accordi, simili a quelli che avevano suggellato la prima parte) e lo chiude un conciso, agitato postludio sinfonico.

La terza parte è intitolata Die wilde Jagd (La selvaggia caccia: ma forse sarebbe meglio tradurre: La selvaggia corsa). Questa parte finale include nove brani che si susseguono però ugualmente senza interruzioni. Un breve Preludio orchestrale riprende Molto lentamente, il tenebroso motivo del canto di mezzanotte di Waldemar. Al suono delle tube wagneriane, il re chiama a raccolta i suoi guerrieri vivi e defunti: «Erwarcht, König Waldemars Mannen wert!… Heute ist Ausfahrt der Toten» («Svegliatevi, prodi di re Waldemar! Oggi è l’uscita dei morti»). Segue un episodio macabro-grottesco di un contadino che fa scongiuri rituali contro gli spiriti maligni: «Deckel des Sarges klappert und klappt» («Il coperchio della bara crocchia e sbatte»). Al culmine del pezzo, il canto si trasforma in grido articolato e stilizzato, in qualcosa come uno «Schreigesang», un «canto-gridato» o, se si vuole, un «grido-cantato»: in ogni caso una rottura di sapore pre-espressionista della normale maniera di cantare. Finita la spettrale cavalcata, si ode la voce di Waldemar il quale rievoca la desiata Tove: «Mit Toves Stimme flüstert der Wald, / Mit Toves Augen schaut der See, /Mit Toves Lächeln leuchten die Sterne» («Con la voce di Tove sussurra il bosco, / Con gli occhi di Tove guarda il lago, / Col sorriso di Tove luccicano gli astri»). La nostalgica melodia di questo quarto Lied dell’ultima parte si dipana sostenuta e avvolta da intrecci canonici di una variante della melodia d’amore di Tove. Un elaborato interludio sinfonico prepara la bizzarra scena di Klaus-Narr (Klaus il folle – V). Ed è da questo punto che si avvertono più chiaramente differenze nella scrittura orchestrale rispetto alle parti strumentate prima del 1903. Il disporsi dei singoli timbri serve anzitutto all’individuazione delle trame polifoniche in un gioco di straordinario virtuosismo orchestrale. L’ironia macabra cede alla disperazione nella conclusiva invettiva contro Dio: «Na, dann mag Gott sich selber gnaden» («Allora Dio perdoni se stesso»). Riprende Waldemar (VI): «Du strenger Richter droben, / Du lachst meiner Schmerzen, / Doch dereinst, beim Auferstehn des Gebeins / Nimm es dir wohl zu Herzen: / Ich und Tove, wir sind eins» («Tu, severo giudice lassù, / Ridi dei miei dolori, / Ma, nel momento della risurrezione dello scheletro / Prenditelo a cuore: / Uno siamo io e Tove»). Altrimenti il re minaccia di dare l’assalto al cielo. Ma comincia ad albeggiare e la cavalcata demoniaca è finita. Il coro degli Uomini di Waldemar canta il richiamo delle tombe (VII): «Der Hahn erhebt den Kopf zur Kraht… Mit offenem Munde ruft das Grab… O, könnten wir in Frieden schlafen» («Il gallo alza la testa pel canto… Con bocca spalancata chiama la tomba… Oh, potessimo dormire in pace»). I colori notturni trapassano gradualmente in quelli dell’incipiente alba. Comincia Des Sommerwindes wilde ]agd, (La selvaggia corsa del vento estivo – VIII). I legni tutti iniziano il movimento con impalpabile lievità. Ed è qui, che, una volta di più, si chiariscono le ragioni che avevano spinto Schönberg a scegliere un così mastodontico organico sinfonico-vocale: non tanto per ottenere massicci effetti di sovradimensionate sonorità, quanto per poter conferire colori omogenei ad interi complessi armonici. Così, ad esempio, la presenza in orchestra di otto flauti, permette a Schönberg di conferire un timbro unico ad accordi di otto parti, realizzando aerei «doppi cori» strumentali. Come s’è già detto, la sezione iniziale di questo Finale, è concepita come un melologo (Melodram). In questo brano Egon Wellesz (fedele allievo ed acuto esegeta del primo Schönberg), scorgeva «la chiave per la comprensione delle opere che Schönberg doveva scrivere più tardi. Come egli stesso ebbe ad esprimersi in un passo della Harmonielehre, tutto ciò che è nuovo sgorga da un sentire cosmico, dalla relazione tra l’io e il mondo. Qui, la natura è vista attraverso l’esperienza dell’anima. I sentimenti di Waldemar diventano quelli dell’ascoltatore, verso il quale si eleva la voce di Tove emergendo tra i suoni della natura. È stato un colpo di genio che permette di incrementare l’effetto del coro finale mediante la concezione dell’ultimo pezzo precedente il coro come un melologo. […] Qui, l’insieme dell’orchestra viene trattato come un corpo di strumenti solisti, in modo che il recitante non ne risulti “coperto”». Prima che dall’orchestra sorga il motivo dell’amore di Tove, nella sua originaria forma tematica, Schönberg prescrive, sulla partitura, anche l’atteggiamento e la mimica del recitante: «Con sguardo ansiosamente teso; trasformandosi lentamente in amichevole sorpresa, seguendo la musica». Finalmente rientra il coro (o meglio: i cori) per annunciare il sorgere del sole, simbolo e pegno della risurrezione: «Seht die Sonne! / Farbenfroh am Himmelssaum, / Östlich grüßt ihr Morgentraum» («Guardate il sole! / In gioia di colori sul bordo del cielo / Saluta dall’Oriente il suo sogno mattutino»). A questo punto, come per chiudere il cerchio architettonico dell’opera, viene ripreso nella luminosa tonalità di do maggiore, il disegno del crepuscolare Orchester-Vorspiel iniziale, per terminare i Gurre-Lieder in un tripudio di voci, suoni e colori. Come si può desumere da questa sommaria descrizione, Schönberg ha conferito al suo ciclo di Lieder strutture di tipo sinfonico e nello stesso tempo ha configurato l’insieme dell’opera seguendo il filo narrativo del testo poetico in maniera che ne risulta un grande affresco melodrammatico, una vera e propria opera «da mirarsi con la mente».

Ciclo di Lieder; sinfonia. drammatica; oratorio; opera latente: una simile polivalenza formale è davvero senza precedenti nella storia della musica (non potrebbero certo pretendere tanto lavori come Der Rose Pilgerfahrt op. 112 di Robert Schumann, la Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra op. 53 di Brahms su poesie da Harzreise im Winter di Goethe, opere non dotate di reali dimensioni sinfonico-drammatiche).

Un esempio successivo (se si tiene conto delle date reali della composizione dei Gurre-Lieder, nella loro sostanza musicale, date che s’iscrivono, come abbiamo detto, tra il 1899 e il 1903), lo si può ravvisare invece nel Lied von der Erde (Il canto della terra) di Mahler, concepito intenzionalmente ed espressamente come un ciclo di Lieder, travasati e formulati come una vera e propria Sinfonia (si sa che, così facendo, Mahler s’illudeva di eludere quello che gli sembrava il divieto fatale di oltrepassare la soglia d’una «Decima Sinfonia» solo dopo aver terminata la sua Nona. Non lo fece e iniziò un’altra «Decima»: ma non gli fu permesso di compierla).

Schönberg non cercò mai di andare contro quello che sentiva essere il suo destino. Non era tentato da Decime Sinfonie. Cercava solo le sue verità in ubbidienza ai dettami di una forza superiore che sentiva in sé. Non esitava mai ad andare contro quelle che, volta per volta, potevano apparire come le correnti principali e le vie maestre di quella che avrebbe dovuto essere la sua storia e la storia in generale. Così potè sembrare a volte un rivoluzionario sovversivo e presentarsi altre volte come un conservatore reazionario. In realtà fu sempre e solo se stesso. Perciò, a dispetto di certi prematuri ed incauti proclami, Schönberg non è morto. La sua musica non morirà.

Roman Vlad

Testo tratto da: https://www.flaminioonline.it/Guide/Schoenberg/Schoenberg-Gurrelieder.html