Christoph Willibald Gluck – Orfeo e Euridice – Trama e Libretto

Orfeo era uno dei personaggi principi del mito greco: eroe, cantore e musico, “La sua arte era tanto raffinata … da ammansire gli animali selvatici e da muovere e farsi seguire dai sassi. Si racconta addirittura che a Zone, in Tracia, alcune querce si disposero secondo lo schema di una delle sue danze e che sia tuttora possibile vederle in quest’ordine”[57]. Orfeo partecipò all’impresa degli Argonauti per la conquista del vello d’oro e, al suo ritorno in Grecia, si innamorò follemente della ninfa (mortale) Euridice, e ne fece la sua sposa, stabilendosi con lei in Tracia presso il selvaggio popolo dei Ciconi. Qui, nella valle del fiume Peneo, un brutto giorno, Euridice, per sottrarsi ad un tentativo di stupro da parte di Aristeo, altro poeta-cantore, anch’egli figlio (come, secondo alcune fonti, lo stesso Orfeo) di Apollo, si diede alla fuga tra i campi e fu morsa mortalmente da un serpente velenoso. “È noto Orfeo, – scrive Calzabigi nell’Argomento del suo libretto – e celebre il suo lungo dolore nell’immatura morte della sua sposa Euridice. Morì ella nella Tracia; io per comodo dell’unità del luogo la suppongo morta nella Campagna [sic!] felice presso al lago d’Averno“, dove gli antichi poeti volevano uno degli accessi all’oltretomba. “Per adattar la favola alle nostre scene – conclude Calzabigi, quasi a giustificarsi del lieto fine – ho dovuto cambiar la catastrofe”[58].

Atto primo

Scena prima[modifica | modifica wikitesto]

Orfeo/Orphée e coro di pastori e di ninfe.

Un coro di ninfe e pastori si unisce ad Orfeo intorno alla tomba di Euridice, sua moglie, ed intona un solenne lamento funebre, mentre Orfeo non riesce se non ad invocare il nome di Euridice (coro e Orfeo: “Ah, se intorno”/“Ah! Dans ce bois”). Rimasto solo, Orfeo canta la sua disperazione nell’aria “Chiamo il mio ben”/“Objet de mon amour”, composta da tre strofe di sei versi, inframmezzate da recitativi pieni di pathos.

Scena seconda

Amore/l’Amour e detto.

Amore/L’Amour appare a questo punto in scena e comunica ad Orfeo che gli dèi, impietositi, gli concedono di discendere agli inferi per tentar di riportare la moglie con sé, alla vita, ponendogli, come unica condizione, che lui non le rivolga lo sguardo finché non saranno ritornati in questo mondo (1774 soltanto, aria di Amour: “Si les doux accords”)[59]. Come forma di incoraggiamento, Amore rappresenta ad Orfeo che la sua sofferenza sarà di breve durata e lo invita intanto a farsi forza nell’aria “Gli sguardi trattieni”/“Soumis au silence”. Orfeo decide di affrontare il cimento e, soltanto nell’edizione del 1774, si esibisce, a chiusura dell’atto, in un’aria di bravura all’italiana (“L’espoir renaît dans mon âme“), che Gluck aveva già utilizzato in due precedenti lavori, Il Parnaso confuso (1765), e l’atto di “Aristeo” ne Le feste d’Apollo (1769)[4]. L’aria, la cui paternità è contesa con il musicista italiano coevo, Ferdinando Bertoni, fu poi notevolmente rimaneggiata da Camille Saint-Saëns e Pauline Viardot per l’edizione Berlioz del 1859[60], e fu infine tradotta in italiano (“Addio, addio, miei sospiri”) nella versione a stampa della Ricordi, del 1889.

Atto secondo

Scena prima

Coro di furie e spettri nell’Inferno e Orfeo/Orphée.

In un oscuro panorama di caverne rocciose, mostri e spettri dell’al di là rifiutano inizialmente di ammettere Orfeo, in quanto persona vivente, nel mondo degli inferi, invocando contro di lui “le fiere Eumenidi” e “gli urli di Cerbero“, il mostruoso guardiano canino dell’Ade (coro: “Chi mai dell’Erebo”/“Quel est l’audacieux”)[61]. Quando Orfeo, accompagnandosi con la sua lira (orchestralmente resa con un’arpa), si appella alla pietà delle entità abitatrici degli inferi, definite “furie, larve, ombre sdegnose” (aria: “Deh placatevi con me”/“Laissez-vous toucher”), egli viene dapprima interrotto da orrende grida di “No!”/“Non!” da parte loro, ma, poi, gradualmente intenerite dalla dolcezza del suo canto (arie: “Mille pene”/“Ah! La flamme” e “Men tiranne”/“La tendresse”), esse gli dischiudono i “neri cardini” delle porte dell’Ade (coro: “Ah, quale incognito”/“Quels chants doux”). Nella versione del 1774, la scena si chiude in una “Danza delle furie” (n. 28).

Scena seconda

Coro di eroi ed eroine negli Elisi,”une ombre hereuse” (ombra beata o Euridice[63]) solo nelle edizioni francesi, poi Orfeo/Orphée.

La seconda scena si svolge nei Campi Elisi. Il breve balletto del 1762 divenne la più elaborata “Danza degli spiriti beati”, in quattro movimenti, con una preminente parte per flauto, nel 1774, alla quale, sempre con riferimento limitato all’edizione parigina, faceva seguito un’aria solistica per soprano (“Cet asile[64]), poi ripetuta dal coro, celebrante la beatitudine dei Campi Elisi, ed eseguita o da un’anima beata senza nome, une ombre hereuse, o, più comunemente, da Euridice (o comunque dalla cantante che interpreta questo personaggio). Orfeo arriva quindi in scena ed è estasiato dalla bellezza e dalla purezza del luogo (arioso: “Che puro ciel”/“Quel nouveau ciel”), ma non riesce a trovare sollievo nel paesaggio perché Euridice non è ancora con lui ed implora quindi gli spiriti beati di condurgliela, cosa che essi fanno con un canto di estrema dolcezza (Coro: “Torna, o bella”/“Près du tendre objet”).

Atto terzo

Scena prima

Orfeo/Orphée e Euridice/Eurydice.

Sulla strada di uscita dall’Ade, Euridice si mostra dapprima entusiasta del suo ritorno alla vita, ma poi non riesce a comprendere l’atteggiamento del marito che rifiuta di abbracciarla ed anche solo di guardarla negli occhi, e, dato che a lui non è permesso rivelarle le condizioni impostegli dagli dei, comincia a rimproverarlo e a dargli del traditore (duetto: “Vieni, appaga il tuo consorte”/“Viens, suis un époux”). Visto che Orfeo insiste nel suo atteggiamento di ritrosia e di reticenza, Euridice interpreta ciò come un segno di mancanza d’amore e rifiuta di andare avanti esprimendo l’angoscia che l’ha invasa nell’aria “Che fiero momento”/“Fortune ennemie” (nell’edizione parigina, fu inserito un breve duetto prima della ripresa[65]). Incapace di resistere oltre, Orfeo si volta a guardare la moglie e ne provoca così di nuovo la morte. Orfeo canta allora la sua disperazione nell’aria più famosa dell’opera, la struggente “Che farò senza Euridice?”/“J’ai perdu mon Euridice”, e decide, al termine, di darsi anch’egli la morte per riunirsi infine con lei nell’Ade.

Scena seconda

Amore/l’Amour e detti.

A questo punto, però, deus ex machina, Amore riappare, ferma il braccio dell’eroe e, in premio alla sua fedeltà, ridona, una seconda volta, la vita ad Euridice (solo nella versione del 1774, terzetto: “Tendre Amour).

Scena terza ed ultima

Coro di seguaci di Orfeo/Orphée e detti.

L’ultima scena si svolge in un magnifico tempio destinato ad Amore, dove, dopo un balletto in quattro movimenti, i tre protagonisti e il coro cantano le lodi del sentimento amoroso e della fedeltà (“Trionfi Amore”). Nella versione parigina, il coro “L’Amour triomphe” precedeva il balletto, che concludeva l’opera, allargato con l’aggiunta, da parte di Gluck, di tre ulteriori movimenti.